sabato 23 ottobre 2021

Nairobi

C'è questo bambino un pò più alto degli altri che ci guarda come fossimo un'occasione che sta sfuggendo. La cravatta rossa della sua divisa è sollevata a mezz'aria, indicando la direzione opposta verso cui stanno andando tutti quei bambini, come a volerci dire che loro ce l'avrebbero fatta, che loro stavano uscendo da una scuola e stanotte non avrebbero dormito tra gli spartitraffico di Mama Ngina Street.

Adios

Ho lasciato La Habana ieri, sotto una pioggia feroce che ha reso ancora piu' triste il distacco dalla citta'. Dal Vedado il taxi mi ha condotto alla estacion de autobus Viazul. Ho chiesto all'autista di percorrere un tratto di Malecon per ammirare ancora una volta la curva che termina al Morro. Vecchi edifici corrosi dalla salsedine, panni stesi da un lato all'altro delle vie brulicanti di vita, vecchi dallo sguardo fiero con mozziconi di sigaro tra le labbra, ragazzini in divisa bianca e blu che si baciano davanti a Coppelia. Penso ai momenti trascorsi tra queste vie con queste persone, ognuno vissuto come un'intera vita.

venerdì 22 ottobre 2021

Thai family

Ci eravamo allontanati da qualche giorno dal moto perpetuo delle nostre esistenze, stanchi e consumati da un anno impegnativo che ci aveva sfinito. Rifugiarci a Bangkok ci era sembrato terribilmente affascinante e avventuroso ma ora ne avevamo abbastanza di templi, mercati e taxi con i condizionatori a palla. Stavamo fuggendo dal suo caos umidiccio e assordante in un autobus a due piani verde e giallo, ci sentivamo così liberi e lontani da tutti e tutto da fantasticare sulla nostra vita lì, in una rinascita esistenziale, a piedi nudi e gambe incrociate sotto il pancione dorato di un Buddha sornione. Magari ero più io ad immaginarci sbarcati così ad est ma i ragazzi erano affascinati dall'idea e facevano l'elenco dei lati positivi della cosa, mia moglie invece manifestava civilmente il suo parere negativo, confermando la sua paura al cambiamento al di là della natura progressista che sbandierava ad ogni occasione. La sua inclinazione a capire, ad accettare e anche a sacrificarsi per vedere felice la sua famiglia era in netto contrasto con l'idea di un "vero" cambiamento. Ovviamente aveva ragione, l'equilibrio di cui eravamo in cerca non era lì, né in un posto diverso dalla nostra casa ma io soffro terribilmente il fascino dell'ignoto e mi apprezzo soltanto se oltrepasso i limiti, fisici o meno che siano. Certe volte temo che questa mia inclinazione venga scambiata per vanità o per egocentrismo mentre in realtà è soltanto il mio tentativo di essere autentico.

Rientrammo a Bangkok sul TukTuk di una famiglia conosciuta vicino al ponte sul fiume Kwai, la loro bambina ci osservò per tutto il tempo dal vetro che divideva l'abitacolo di guida dai sedili su cui eravamo seduti noi. Sentivamo i suoi genitori discutere, la giovane donna non era d'accordo su qualcosa, lui gesticolava lasciando lo sterzo per poi riafferrarlo scalando una marcia.
Loro da una parte, noi dall'altra.
Tutto sommato niente affatto distanti.

Cammino portoghese

Cammino portoghese, da Oporto a Santiago de Compostela e poi oltre, fino a Finisterre per bruciare sulla spiaggia un indumento indossato durante il cammino. Tappe indimenticabili fatte di fatica, di solitudine, di amicizia, di forza e di piccoli momenti felici. Esperienza segnante, metafora dell' esistenza, che non porta semplicemente da un punto geografico all'altro ma che parte da se stessi per terminare dove non ti aspetti.

Una lezione

Ho appena imparato che per vivere momenti autentici bisogna scegliere e non essere scelti.

Himalayan morning

Sono le 6.30, dobbiamo metterci in marcia e fuori piove a dirotto. Aspetto che il mio sherpa decida che cosa fare. Abbiamo una marcia di una decina di ore per raggiungere un crinale da cui sarà possibile ammirare gran parte della catena himalayana, dall'Everest in giù. Ieri sera ci siamo addormentati vestiti per quanto la stanza era fredda. Sogno una doccia, un bagno ed un minimo di privacy. In realtà la doccia avrei potuta farla ma era sul terrazzo di un'abitazione, all'aperto: ho preferito tenermi in salute. Oltre alla pioggia si sente soltanto il cantare dei galli e la presenza delle montagne tutto intorno. Il verde dei pini si estende a perdita d'occhio, potresti entrare in quella foresta e non uscirne più. Immagino che a breve faremo colazione e, pioggia o non pioggia riprenderemo il camino.

Chang Mei


Chang Mei, nord della Thailandia. In un caffè piccolo piccolo c'è una chitarra, Matteo chiede e si esibisce presentando lo striminzito repertorio che conosce. Il caffè risuona delle note che sono abituato a sentire a casa, così la musica, attraverso mio figlio, collega due mondi tanto diversi e lontani.

Rio Negro y monos

Era il 30 marzo del 2013, in navigazione sul Rio Negro nella giungla colombiana. Erano giorni avventurosi e pieni di scoperte quotidiane, giorni incerti fatti di momenti di solitudine e di incontri insperati. Il mio tempo migliore è quello che ho dedicato a viaggiare. Mi sono sempre ritrovato nelle parole di Sam Gamgee quando è in cammino per lasciare la Contea: "Se faccio un altro passo non sarò mai stato così lontano da casa". La sua paura e la sua eccitazione sono, ogni volta, le mie.

Lisboa


Eccola

odorosa di spezie e di pane di mais

rilassata

al tavolino di un caffè a Praça do Comércio

sudata

nelle notti di fado e vino rosso.

Lisboa

imprigionata tra i versi del suo poeta invisibile

e le impavide prue che sfidavano l'Atlantico.

domenica 17 ottobre 2021

Masai Mara

Questa foto è stata scattata 18 anni fa. Stasera ho potuto guardarla per la prima volta. Era un fotogramma nero, trasferito di cartella in cartella e oggi è saltato fuori. L'ho schiarito e sistemato al meglio e nonostante la qualità scadente il ricordo che compare non lo è affatto. Ero a Masai Mara, a qualche ora d'auto da Nairobi, tra le mie braccia c'è Bavika, figlia di amici indiani che vivono in Kenya e la mia mano è sulla spalla di un un vecchio masai di cui non ricordo il nome. Eccoci, in posa ognuno per un motivo diverso, con un'età diversa, con un colore diverso, con una lingua diversa. Questa foto è perfetta.

Thai

Andrea vede un gatto sdraiato all'ingresso del tempio, si toglie i sandali, entra e si siede a guardarlo. Matteo si inchina a mani giunte ad una vecchia signora che gli sorride e si inchina a sua volta. Fra, con un fiore di ibisco tra i capelli, guarda i suoi figli con quell'espressione che soltanto una mamma può avere.

Atacama

Non ricordo esattamente quante ore di bus ci vollero da Santiago del Cile fino a San Pedro de Atacama, una ventina credo, e mano a mano che il paesaggio cambiava e l'oceano, le distese di verde, le città, i piccoli villaggi scomparivano al di là del finestrino per lasciare il posto a cactus, sabbia e cielo, allo stesso tempo mi riempivo di un senso di meraviglia che non avevo mai provato prima di allora. Il Deserto avanzava curva dopo curva, metro dopo metro e improvvisamente mi ci ritrovai in mezzo. Queste vecchie carrozze abbandonate, l'unica foto non andata persa di un viaggio improvviso e frettoloso, figlio di una ferita mal sopportata, segna per me il confine tra un mondo tutto sommato possibile da affrontare ed un altro misterioso ed alieno, di cui ho memoria ma che fatico a mettere a fuoco per poterlo raccontare meglio di così.

Ci sono luoghi in cui è necessario tornare, come ci sono persone che bisogna rincontrare per capire in che senso hanno contribuito a cambiarti la vita. Perché comunque, in qualche modo, lo hanno fatto.

Offeso

Un giorno mi offesi per qualcosa. Era dicembre e faceva freddo. Avrò avuto otto o nove anni. Come tutti i pomeriggi ero a casa di mia nonna, la mamma di mio padre, che abitava nell'appartamento sotto al nostro. Mia nonna passava tutto l'inverno a guardare telenovelas sudamericane con la stufa al massimo, si moriva di caldo in quel salotto. Dicevo che quel giorno mi offesi, era primo pomeriggio, lo ricordo perché ero tornato da scuola da poco, a piedi, insieme a P. P. non mi piaceva, preferivo R., quella biondina con gli occhi celesti con cui mi misero il primo giorno di scuola ma lei abitava da un'altra parte, mentre P. viveva vicino casa mia. Insomma, ero offeso a morte per qualche torto impossibile da perdonare così me ne uscii in cortile, nel freddo di un inverno bianchissimo. Mia nonna provava a chiamarmi per farmi rientrare, che non avevo neanche il cappotto, ma a me quel sentirmi solo e in balia di qualunque cosa potesse accadermi, piaceva. E più lei tentava di attirarmi, con promesse, con dolcetti, con monete sonanti, più la mia resistenza diventava stoicismo ed io mi sentivo grande e forte. Quando iniziò a fare buio ed il freddo aumentò, mi sedetti sul davanzale della finestra del salotto e mentre mi abbracciavo le gambe stringendomi per scaldarmi, ascoltavo quello che succedeva al di là del vetro e oltre le cortine avana plissettate. Ogni rumore, ogni voce mi riconduceva ad una familiarità soverchiante, che mi faceva male al cuore. Cominciai a desiderare che dall'interno riprendessero a pregarmi di rincasare perché allora avrei potuto concederglielo, ma ormai tutti erano persuasi che insistere non sarebbe servito, forse si erano stancati di me, mi avevano dimenticato. Restai lì finché mamma non tornò dal lavoro. Sentii mia nonna che dalla porta-finestra che dava sulle nostre scale la chiamava per dirle di venire a prendermi e, nonostante mia mamma fosse restia ad entrare a casa di nonna, entrò. Attraversò parte del corridoio, superò la cucina in penombra ed uscì in cortile. Venne alla finestra e mi guardò allungando le braccia verso di me, sollevandomi da quel marmo ghiacciato. Mi strinse nel suo cappotto grigio che profumava di mamma, poi mi guardò come a chiedermi cosa fosse successo. La guardai di rimando senza parlare e ci sorridemmo di un sorriso impercettibile che soltanto noi due sapevamo esserci stato.

Bogotà

Quando ne senti parlare vieni assalito da mille paure e inizi a temerla ancor prima di conoscerla. Io la incontrai in una notte di fuochi accesi per strada con ombre ferme in attesa e altre che scivolavano nel buio, lontane dai riverberi dei falò e dalle lame di luce artificiale dei fari delle auto. I pochi millimetri di vetro del finestrino di un taxi mi separava da tutto quello ed il pensiero che a momenti sarei stato lasciato lì fuori mi terrorizzava e mi eccitava al tempo stesso. Ed ecco le emozioni che cercavo, che ora mi spaventavano e mi facevano sentire vivo, quelle per cui spesso mi sono messo nei guai ma che mi definiscono e mi rappresentano. Stringevo una cinghia dello zaino in una mano e nell'alta avevo pronti i soldi per pagare la corsa: mentre mi difendevo già da lei, non vedevo l'ora di scoprirla.

Seme

Sono un seme

che fiorisce più e più volte,

trasportato dal vento

oltre i confini e gli orizzonti.

Fiorisco e mi lascio trasportare ancora,

fluttuo in balia delle correnti

e non me ne curo.

Hector


Quando ritorni, seppur in sogno, a persone o luoghi che hai amato è come rivivere una seconda volta, solo che sai già che amerai per sempre quelle persone e quei luoghi.

Iquitos è il solito sciamare di motorini e biciclette. L'aria immobile odora di terra bagnata e le capanne sul fiume sembrano gigantesche ninfee sul punto di lasciarsi andare.
Attraverso le strade tranquille del primo pomeriggio, seguo a memoria il percorso per casa di Hector come se avessi da sempre abitato lì. Quella finestra c'è ancora, mi avvicino e sfioro con le dita il davanzale. Hector era il capolavoro che quella finestra incorniciava. Lo rivedo lì, in canottiera, col ventre straripante, che dosa con fare solenne rum e coca nei nostri bicchieri. Aveva storie di amori tristi e impossibili da raccontare, era capace di stare lì per ore a bere e a raccontare e io, per ore, stavo lì a bere e ad ascoltare. Di tanto in tanto si interrompeva e voltandosi verso la penombra della casa gridava “hielo!”, allora compariva una india esile che a piedi nudi ci raggiungeva per metterci del ghiaccio nei bicchieri. Quando la ringraziavo lei mi guardava con dolcezza per poi tornare a vivere una vita a me ignota.
La finestra è socchiusa e ho la tentazione di bussare, poi rinuncio. Hector e la sua india potrebbero non esserci più. Quelle storie d'amore tristi e impossibili le ho già ascoltate. E comunque non sarebbero più le stesse.

La meta

 
"E' il 16 luglio 2013, sono le 18.01 e sono seduto ad un vecchio tavolo tirato a lucido e agghindato con centrini e statuine di limonge. I graffi e le ammaccature su cui faccio scorrere le dita mi raccontano che questo tavolo è qui da molto tempo, come il resto dell'arredamento e come la casa stessa. Le tante fotografie in bianco e nero parlano di una famiglia numerosa, una di esse ritrae l'intera dinastia nei primi anni '50. Gli uomini hanno baffi importanti e sguardi fieri, le donne sembrano conoscere già il loro futuro, anche le sei adolescenti con l'abito da suora. Mentre scrivo la distinta signora che mi ha amabilmente accolto si aggira silenziosa per la casa, entrando e uscendo da stanze che subito vengono richiuse, lasciandomi la curiosità dei segreti che celano. I rintocchi di una campana mi distraggono dalle mie fantasie richiamando lo sguardo oltre la grande finestra che si apre sulla cattedrale che ho tanto rincorso.

Sono entrato a Santiago de Compostela questa mattina, discendendo Monte de Gozo, e percorrendo gli ultimi chilometri del mio pellegrinaggio. I miei sandali ed il mio zaino sono stati casa per tutto il cammino e vederli ora in un angolo, ancora ricoperti della polvere della strada, mi suscitano tenerezza, verso di me e verso le persone che ho incontrato lungo il cammino. Molte di loro che avevo perso le ho rincontrate tra le vie di questa città, altre non le rivedrò più, altre ancora, chissà, magari cambieranno la mia vita più di quanto non abbiano già fatto. Mi chiedo come possa un' esperienza così personale unire tanto fortemente persone diverse e sconosciute. Sulla strada e negli albergue ogni distinzione tra le persone smette di essere tale, siamo soltanto pellegrini e la sola differenza tra noi è il nostro nome.
Ogni nome è un volto, un' espressione, un gesto, una parola.
Eva, la bionda tedesca pelle e ossa di Amburgo che da sola ha camminato da Bilbao a Santiago e che domattina riprenderà il cammino per raggiungere Finisterre. Dominique, che ha aspettato 17 anni prima di decidersi ad incamminarsi ma che lo ha fatto tre mesi fa chiudendosi alle spalle la porta della sua casa di Parigi. I due ragazzi polacchi che a O Paròn hanno indossato una tonaca e hanno detto messa con il parroco locale mentre noi altri pellegrini eravamo seduti ai banchi della chiesa e piangevamo commossi. Elisabeth, la ragazzina Danese a cui non piace studiare e che ho battuto 7 a 2 in una sfida di pela-patate. Thomas, l'ex punk slovacco che ci ha
divertito
una sera con una canzone russa che si intona mentre si aspetta che i panni stesi asciughino. Carmen, la chica di Malaga con cui ho discusso dei motivi che ci hanno messo in cammino senza citare mai quali fossero (
auguri
, è mezzanotte e il 17 luglio compi 27 anni). Lionel, Piedad e “la negrita”, i tre sessantenni colombiani con i quali ho bevuto birra a Ponte Ferrol e a cui ho spiegato come fare gli spaghetti alla chitarra. Antonio da Salamanca, che ha fatto la doccia con il sifone davanti al lavadero dell' albergue di Pola de Allende sotto lo sguardo curioso di due vacche pezzate che pascolavano nei pressi. Le due nonnine francesi di Bordeaux, che ogni tanto litigavano ma non potevano fare a meno l'una dell'altra. Daniel, un amico insperato che mi ha insegnato a contemplare l'orizzonte.
Vivir es compartir. Nulla di più vero."

 

Mi preparo il caffè in una città non mia, in una casa non mia, in una cucina non mia, in un tempo che sembra non appartenermi. Lo faccio con i gesti consueti di una vita, come se invece tutto questo fossero un luogo ed un momento miei da sempre. L'aroma del caffè che invade il cucinino è confortante, ce n'è bisogno.

Il salotto è illuminato dal baluginio intermittente delle lucine dell'albero di Natale. Di là dormono già tutti e la casa scricchiola e sussurra come sa fare solo di notte. La libreria è un gigantesco mosaico sulla parete nord; scorro i titoli, decine, centinaia e di ogni libro ho un ricordo. C'è quello letto lungo il cammino per Santiago, quello comprato a Termoli in un pomeriggio estivo di vent'anni fa, quello la cui protagonista risveglia i morti, quello che ho rubato in un ostello della gioventù, quello che parla di un uomo che prende tutte le decisioni tirando i dadi, quello in cui mangiano zuppa di cane, quello del passaggio magico nell'armadio, quelli di eroi, di perdenti, di persone a cui vorremmo somigliare o da cui vorremmo restare lontani. É un mosaico di vite di cui fa parte, inevitabilmente, anche la mia.

A. e D.

Forse li ho sognati oppure semplicemente pensavo a loro, due amici di una vita passata con cui ho fatto delle scoperte. Lui di Casablanca, lei di Belgrado, vivevano ad un passo da me e quando andavo a casa loro era come entrare in un altro mondo. La mia visione delle cose ed il mio pensiero erano conformi a quello che mia madre, un prete e diversi insegnanti avevano pesantemente contribuito a plasmare, perché convinti, o certi di esserlo, che le cose stanno come stanno e che bisogna essere come bisogna essere. Quando invece varcavo la soglia di quella casa i profumi sconosciuti, le parole con gli accenti sbagliati e i pensieri, soprattutto i pensieri, mi investivano con una violenza dolcissima facendo vacillare tutto il mio mondo ordinato ed ordinario. Ve ne sono grato.

Momenti

Ricordo certi giorni di me bambino in cui mi sentivo felice. C'erano alcuni momenti ricorrenti che attendevo con ansia spasmodica perché in quegli istanti provavo un benessere diffuso che mi stordiva e mi faceva desiderare soltanto la non fine di quegli attimi. Uno di quei momenti speciali si verificava quando c'era il sole, qualunque fosse la stagione. Dopo pranzo mia mamma preparava il caffè e si sedeva in balcone con la tazzina in mano. Io mi rannicchiavo sulle mattonelle calde con le ginocchia raccolte sul petto e con la schiena contro la ringhiera bianca e azzurra. Mi incantavo a guardarla fumare, il sole sul viso, dopo che aveva bevuto il caffè. Mia mamma era bella e spavalda, aveva l'aria da dura e quando aspirava il fumo socchiudeva gli occhi in due fessure brillanti. Era il mio eroe. Volevo somigliarle, essere forte e sicuro come lo era lei. Quando spostava lo sguardo su di me mi faceva un regalo, quei pochi minuti che si concedeva dai suoi impegni sapevo che erano solo suoi ed in quel momento mi sentivo come un intruso nella sua vita. Poi però mi sorrideva e mi faceva cenno di avvicinarmi, mi accarezzava i capelli, uno dei suoi rari gesti d'affetto, e la sua espressione diventava dolce come non lo era mai. Allora l'amavo, l'amavo con tutto me stesso ed ero felice.


Colazione

 A distanza di anni fanno colazione con le stesse tazze. Certe cose non cambiano mentre loro crescono. Stamattina, alzandomi, li ho trovati con quelle tazze davanti; si erano preparati la colazione e giocavano a Uno mentre mangiavano. Parlavano sottovoce, li sentivo sussurrare per non svegliarci e per salvaguardare quello spazio solo loro che si erano creati. Da dietro la porta socchiusa li ho spiati per qualche istante, immaginandoli già grandi e altrove, presi dalle loro esistenze e dalle loro vite. Ho immaginato che tornando a casa avrebbero fatto colazione con quelle stesse tazze e avrebbero ricordato questa mattina, quando ci siamo sorpresi a trovarli così, due ragazzini in pigiama a giocare a Uno mentre facevano colazione.


Sosta himalayana

 

Lemon tea, bollente e ristoratore. Fuori piove e ci siamo rifugiati in un posto dove ci stanno preparando da mangiare. C'è una pace insolita tutt'intorno, un silenzio a cui non sono abituato. Siamo avvolti dalla nebbia e sentiamo la pioggia ticchettare sul tetto di lamiera di questo... riparo. Tappeti, cuscini, galline, bambini scalzi ed un profumo di spezie soffrite che piano piano invade la stanza.

Albergue

 

Arrivare all'albergue era come rientrare a casa. Tra doccia, bucato e preparazione della cena c'era un particolare unico: la tua famiglia aveva ogni sera occhi diversi.

Da qualche parte nelle Asturie, Spagna

Quando sei ragazzino il concetto di tempo è confuso, non so dire per quanti giorni o settimane questo videogioco è rimasto nell'unica sala giochi che all'epoca c'era a Pineto ma a me è sembrato un tempo lunghissimo, un tempo che ho vissuto in simbiosi con il gioco stesso. Davanti a questo cabinato sono cambiato e cresciuto e mi sono scoperto. L'ho amato fin dalla prima partita, quegli sprite enormi e colorati li avevo sempre davanti agli occhi e la colonna sonora la sentivo in un loop infinito nelle mie orecchie. Mi scroprii subito bravo nel giocarci, guidavo Pacman tra fantasmini e macchinine con agilità e precisione, superavo punti difficili dove altri continuavano a morire e ogni volta che infilavo una moneta nella gettoniera intorno a me si creava una piccola folla di spettatori. L'estate del 1984 la trascorsi tra i muretti della "Vecchietta" e la sala giochi e li mi innamorai di Donatella, una ragazzina di Terni che abitava vicino casa mia. Ogni sera andavo a prenderla, lei saliva in piedi sul portapacchi della mia bici e andavamo in centro. Ogni sera iniziava con Pac-Land, giocavo e mi superavo. Ogni nuova partita mi dava fiducia, sentivo il tifo degli amici e lo sguardo di Donatella che passava dal mio viso allo schermo come se volesse in qualche modo sostenere la tensione di quei momenti. Quando le monete finivano andavamo a sederci sui muretti o a passeggiare sulla spiaggia. Donatella voleva fare la scrittrice ed io il giornalista così ci immaginavamo grandi e facevamo discorsi importanti a cui ripenso ancora oggi. Poi tornavamo ragazzini e parlavamo di come superare quel maledetto livello di Pac-Land in cui morivo sempre e intanto non smettevamo di abbracciarci e di baciarci. La prima volta che la baciai, all'improvviso mentre stava salendo sulla mia bici, lei mi guardò con occhi enormi e non si scompose, non arrossì, non mi schiaffeggiò ma mi guardò dritto negli occhi e disse di andare. La sera che terminai il gioco ed il mio nome ed il mio punteggio furono scritti con una grossa matita rossa da muratore sulla parte posteriore del cabinato, mi ero rasato il viso per la prima volta. Dopo essermi riempito la faccia di schiuma usai un rasoio di mio padre, ripetendo i gesti che gli vedevo fare ogni mattina. Non c'era nulla da radere ma quei gesti mi davano sicurezza e la freschezza del mentolo mi stordiva piacevolmente. Quella sera fui protagonista e provai per la prima volta nella mia vita che cosa significasse raggiungere uno scopo. Ancora oggi porto dentro i giorni di quella estate, i baci di Donatella, il profumo del mentolo e la sensazione che si prova nel sentirsi completi.

Tijuana

 

Il lamento di una tromba, una strada deserta, panni stesi al vento. Io che avanzo a passi incerti con la camicia fuori dai jeans. Ho in bocca sapore di ron, tabacco e sangue. Davanti al portone scrostato cerco invano le chiavi. Guardo in su, verso le persiane accostate e prendo fiato per chiamare. No, meglio godermi ancora un po' questo buffo ondeggiare.



 

La strada come unica, apparente similitudine tra te e lo sconosciuto che incroci sul cammino. Quando poi la strada è la costante che condividi, quello sconosciuto diventa la tua forza e tu la sua.

Cammino degli Dei, tappa (di vita)

 Giorno 5: Tagliaferro - Firenze Km 30

Se non avessimo sbagliato strada perdendo tempo, se la pioggia non ci avesse rallentato, se non ci fosse stato il piccolo screzio che ha spaccato in due il gruppo, oggi non avremmo vissuto la sorpresa di godere delle fragilità di persone che fino a due giorni fa non esistevano.
Il portoncino a cui abbiamo bussato, fradici, stanchi e demoralizzati, si apre su due occhi sorridenti che ci accolgono in un pianerottolo angusto. Giù gli zaini, via mantella e scarpe ed eccoci, quasi storditi da un'atmosfera d'altri tempi, all'interno di una cucina che qualche decennio fa è stato il punto nevralgico di quella casa da cui un maggiordomo impartiva ordini al resto della servitù. Ci siamo ritrovati tutti quanti lì, come tirati da un filo invisibile, come se fosse giusto ed ineluttabile così.
Essere in quel luogo fuori dal tempo eppure così reale nel suo ordine e nella sua identità, con l'ultima luce d'estate a far risplendere i visi bagnati di pioggia mentre il fischio del bollitore rompe l'imbarazzo del primo momento, mi dà la certezza che certi legami non c'è bisogno di costruirli ma li scopri all'improvviso, e sai che quelle persone saranno per sempre.



La telefonata

L'ultima volta che sono entrato in un ospedale è stato cinque anni fa, in quello centrale de La Habana. In realtà dovevo soltanto telefonare ma visto che telefoni pubblici funzionanti non ce ne erano, chiesi ad un ragazzetto incontrato per strada dove potessi trovarne uno. Quello mi disse che un suo amico aveva un cellulare e che avrei potuto pagare a lui la chiamata così ci addentrammo nei vicoli sgarrupati de La Habana Vieja, tra puzzo di piscio e olio fritto. Jesus, l'amico col cellulare, non era in casa ma il gran chiamare dalla strada in direzione della sua finestra fece affacciare mezzo quartiere che si mobilitò per "conseguir" un telefono per me. Dopo un colorito conciliabolo inframmezzato da saluti e pettegolezzi, si arrivò alla conclusione che avrei potuto telefonare dall'ospedale. Una ragazza magra con dei saldali di cuoio, Camilla, mi avrebbe accompagnato. Attraversammo il quartiere mentre lei mi raccontava delle famiglie che ci vivevano e mi nominava ad uno ad uno i bambini che giocavano a baseball nei vicoli o che ascoltavano musica da vecchi radioni, improvvisando passi di ballo per me, orso totale, complicatissimi. Camila mi chiese se mi piacesse il mojto così mi fece entrare in un portoncino anonimo e ci ritrovammo in un salone-museo, un enorme spazio ricolmo di mobili, quadri, arazzi, strumenti musicali, libri e altri oggetti a me sconosciuti che prima dell'embargo rappresentavano la modernità e che ora erano soltanto cimeli polverosi. Una attempata signora di colore in vestaglia e ciabatte, materializzatasi al centro del salone, ci venne incontro con un sorriso disarmante sul viso e mi salutò baciandomi sulle guance. Poi ci fece strada verso una scalinata in ferro battuto che portava su un terrazzo meravigliosamente avvolto da piante e fiori di tutti i colori. Su un lato corto di questo rettangolo sospeso sui tetti della città, nel fresco del mattino presto, un ragazzone di colore, pensai fosse il figlio della signora in vestaglia, era piazzato dietro al bancone di un bar improvvisato. Ci sedemmo ad un minuscolo tavolino tondo in ferro, stile belle epoque, e ordinammo due mojto. Ricordo ancora le radici della menta appena estirpata dal vaso alle spalle del barista, sporche di terra e di un verde mai visto. Ne bevemmo diversi perché quella vista meritava di essere celebrata e perché l'ospedale è sempre un brutto posto in cui entrare, anche a detta di Camila che mi raccontava del nonno ferito da certi ladrones mentre era a difesa del suo porcile durante el periodo especial. Quando arrivammo davanti al palazzone fatiscente a due passi dal mare, l'ospedale Calixo Garcìa, mi prese quel nodo allo stomaco che mi coglie sempre di fronte a questo contenitore di sofferenza. I telefoni, quattro, erano nell'atrio, a pochi metri dalle porte d'ingresso. Telefonai velocemente, mentre provavo a non far caso al movimento di medici, pazienti e visitatori che si agitava intorno a me. Ogni tanto volgevo lo sguardo a Camilla e mi aggrappavo al suo sorriso per vedermi già fuori di lì.

Cuba desnuda

All'altezza del Teatro América attraverso la strada e tiro dritto per Avenida de Italia. Supero l'Hotel Deauville e poi giù, fino al Malécon. Nell'aria ferma del tardo pomeriggio, dal muretto butterato del lungomare, pescano. L'oceano è l'esatta misura tra i sogni e i miracoli. Si pesca in silenzio, sorseggiando birra e fumando Popular senza filtro. E si attende. Che sia un pesce, un'opportunità o un'altra rivoluzione non importa, qui almeno il tempo non manca. Quando dal golfo si alza un'onda più impetuosa, l'aria si riempie di perle lucenti che restano sospese per un istante per poi spegnersi sul marciapiede, tra mozziconi di sigarette e sabbia calpestata. Il sole scende tra le inferriate ed i lucchetti che serrano porte e finestre e vedo il Castillo de San Salvador, con la sua torre dalle finestre gialle, tinto del colore morbido del tramonto. Due anni fa avevo detestato questa città che voleva soltanto depredarmi e usarmi, che non mi lasciava il tempo di comprenderla. Oggi ne vedo l'autenticità, sotto la scorza di diffidenza erosa dalla salsedine battono cuori pieni di coraggio. Percorro il Paseo de Martì catturando istanti di vita di persone sconosciute, svolto in una via laterale e mi lascio sedurre dalla musica e dalle figure che vi ruotano dentro. La vita scorre velocissima, mi travolge, mi prende e mi scuote; devo tenermi saldo alla mia identità per non lasciarmi portar via.
Mi faccio sedurre dal cuore dell' Habana Vieja, in una dedalo di strade e di gente, di incroci di esistenze che nella loro quotidianità non avrebbero nulla in comune ma che qui sono l'essenza stessa di questa città. In un bar vedo un tavolino libero, entro e mi siedo per una birra. Aspetto il cameriere accarezzando il legno consunto del tavolo e penso a quante mani sono state appoggiate dove ora ci sono le mie. Mani di ogni età e di ogni colore, mani in attesa, nervose, tese, sicure, sporche, tremanti, decise, stanche. Mi accendo una Hollywood, aspiro il fumo e mi guardo intorno: alcuni ragazzi stanno preparando gli strumenti, tra un po' suoneranno e il bar si trasformerà in una piccola tribù in festa dove tutti si sentiranno così vivi da dimenticare il vuoto nelle loro tasche e nelle loro pance.


Fine

La prima immagine di quella giornata è il mio viso riflesso nello specchio del bagno della casa in cui sono nato, quella in via Cristoforo Colombo, con la sola ferrovia a dividerla dal mare. Oggi la casa è vuota, tranne me non ci abita nessuno: una famiglia smembrata tra dissapori e malattie. Rimpiango persino le grida dei litigi di noi fratelli o i toni esasperati delle ragioni di mia madre sulle azioni di mio padre. A tanto silenzio non riesco ad abituarmi, è come ritrovarsi in una stradina di campagna all'alba dopo una notte trascorsa in discoteca. Mi sto radendo perché lei vuole che sia in ordine, perché pare che le persone mi giudichino anche per come mi presento e lei, strano, temeva i giudizi. Li temeva a tal punto da rinunciare a vivere davvero pur di apparire all'altezza dei suoi ruoli: madre, moglie, lavoratrice, donna di casa. Le è sfuggito però quello di donna, l'aspetto che prima di ogni altro avrebbe dovuto curare nella sua vita. Era domenica, forse era l'11 giugno, non ne sono certo. Devo averlo rimosso, e anche quando oggi vado a trovarla, evito di verificare questo particolare perché mi costerebbe fatica, perché tornerei a vivere certe angosce e perché non cambierebbe nulla di quello che successe quel giorno, anzi di quello che vissi. Il giorno prima, mentre andavo via, mi aveva chiesto del tonno e quando uscii di casa avevo con me una bustina con dentro una confezione da due, di quello col grissino sul cartone che a lei piaceva tanto. Sapevo che non l'avrebbe mangiato, non mangiava più nulla, ma glielo portavo perché me lo aveva chiesto con un tono trasognato, come se mi stesse chiedendo chissà quale prelibatezza e perché, in fondo, una speranza che fingevo di ignorare occupava ogni particella del mio essere. Quella che quel tonno tanto desiderato potesse guarirla, compiere il miracolo, essere il Sacro Graal finalmente venuto alla luce. Percorro delle strade di collina che conosco appena, così vicino a casa eppure nuove, tenendo la mente occupata nel memorizzare le immagini che sfilano oltre il parabrezza: scatto istantanee del mondo esterno così inconsapevole e le associo a pensieri divertenti, surreali o mistici. Immagino che una madonna mi si pari davanti e mi dica di stare tranquillo, che sarebbe andato tutto bene alla fine. Che questo è un periodo di sofferenza per tutti, che è una prova che stavamo affrontando ma che era quasi finita e ce la stavamo facendo. Che anche suo figlio aveva sofferto tanto e l'avevano perfino ucciso ma che poi è tornato da lei. E che anche noi, alla fine, saremmo tornati a casa per vivere ancora. La prima volta che percorsi quelle strade, lei era con me. Seduta al mio fianco, sottile, rada, quasi trasparente, di una fragilità che mi costringeva a farmi forza per non scoppiare in lacrime ad ogni sguardo che mi lanciava. Ad uno stop mi disse, guardandomi con durezza, che la stavo portando a morire e che voleva tornare a casa. Non so come la convinsi che dovevamo andare, che in quella clinica l'avrebbero curata meglio di qualsiasi ospedale in cui eravamo stati. Ma ormai lei aveva parlato, aveva detto "morire", un verbo che fino ad allora avevamo sempre aggirato, esattamente come il nome della sua malattia. A tutto questo penso mentre percorro il viale che porta alla villa, una volta residenza di ricchi proprietari terrieri e oggi teatro dell'ultimo atto di tante commedie o tragedie o farse che chiamiamo vita.
Salgo al piano ed entro nella sua stanzetta. Il sole trapela attraverso la veneziana bianca colpendo il letto come tante lame fulve. Il letto è spoglio. C'è soltanto il materasso coperto da una federa candida. Il cuscino è posto ai piedi del letto. Il linoleum stride sotto la gomma delle mie scarpe quando torno indietro per sincerarmi che quella sia proprio la sua stanza. Lo è. Allora mi incammino per il corridoio in cerca di qualcuno. E' domenica e non c'è nessuno in corsia. Penso che sono tutti al mare. Arrivo alla guardiola con la bustina del tonno in mano. La signorina mi riconosce e viene fuori per dirmi qualcosa. Mi guarda come se avesse una colpa da confessare. Io prendo a scuotere la testa di fronte a quelle parole incomprensibili. Parla con gli occhi bassi, le dita intrecciate in grembo, i piedi perfettamente paralleli. Poi mi porge un sacchetto con dentro la fede di lei, un altro anello che aveva tanto desiderato e che alla fine si era regalata ed un braccialetto d'argento, quello che le avevo donato io quando guadagnai i primi soldi e che dei ladri rubarono quando un'estate ci svaligiarono casa. Lei la mattina seguente come prima cosa andò a ricomprarne uno uguale e lo portò per anni, fino ad ora.
Mi parlano sottovoce dicendomi che, se volevo, potevo entrare. Chiudono la porta di ferro e sento lo scrocco scattare rompendo il silenzio irreale che mi circonda. E' l'ultima volta che le parlo e le dico molte cose, tante che non ero riuscito a dirle fino al giorno prima ed altre che ora doveva sapere. La lascio lì, dove me l'hanno fatta vedere, su un marmo bianco coperta da un lenzuolo bianco e torno a casa.
Al di la della porta entro nella più grande solitudine che abbia mai provato, in cucina metto sul tavolo la bustina con il suo tonno, l'unica cosa ancora reale della giornata.

Appunti messicani

La vidi che mi cercava con lo sguardo tra le persone e le valige. Aveva i capelli raccolti in uno chignon e fiori bianchi in mano, una sposa arrivata in anticipo e io mi avviai a quell'altare a passo troppo solerte.

L'imbarazzo durò il tempo di uno sguardo, mi caricai lo zaino in spalla e con un mazzo di fiori bianchi in una mano e la mano di una sconosciuta nell'altra entrai in Messico, uscendo da una porta automatica dell'aeroporto di Cancùn.

La musica ranchera era troppo alta, i sedili troppo impolverati e la Virgen de Guadalupe che pendeva dallo specchietto retrovisore del taxi oscillava decisamente troppo. 


C'è questa strana abitudine di fare il giro dei locali: una tequila al Coco Bongo, un mezcal al Mandala, un rompope a La Vaquita, troppe Corona a El Socio. Parlavamo due lingue differenti ma tutto quell'alcol sostituiva le parole mancanti e traduceva i nostri pensieri. Era chiaro che mi stavo ficcando in un grosso guaio.






Epilogo

  La prima immagine di quella giornata è il mio viso riflesso nello specchio del bagno della casa in cui sono nato, quella in via Cristoforo...