domenica 17 ottobre 2021

La telefonata

L'ultima volta che sono entrato in un ospedale è stato cinque anni fa, in quello centrale de La Habana. In realtà dovevo soltanto telefonare ma visto che telefoni pubblici funzionanti non ce ne erano, chiesi ad un ragazzetto incontrato per strada dove potessi trovarne uno. Quello mi disse che un suo amico aveva un cellulare e che avrei potuto pagare a lui la chiamata così ci addentrammo nei vicoli sgarrupati de La Habana Vieja, tra puzzo di piscio e olio fritto. Jesus, l'amico col cellulare, non era in casa ma il gran chiamare dalla strada in direzione della sua finestra fece affacciare mezzo quartiere che si mobilitò per "conseguir" un telefono per me. Dopo un colorito conciliabolo inframmezzato da saluti e pettegolezzi, si arrivò alla conclusione che avrei potuto telefonare dall'ospedale. Una ragazza magra con dei saldali di cuoio, Camilla, mi avrebbe accompagnato. Attraversammo il quartiere mentre lei mi raccontava delle famiglie che ci vivevano e mi nominava ad uno ad uno i bambini che giocavano a baseball nei vicoli o che ascoltavano musica da vecchi radioni, improvvisando passi di ballo per me, orso totale, complicatissimi. Camila mi chiese se mi piacesse il mojto così mi fece entrare in un portoncino anonimo e ci ritrovammo in un salone-museo, un enorme spazio ricolmo di mobili, quadri, arazzi, strumenti musicali, libri e altri oggetti a me sconosciuti che prima dell'embargo rappresentavano la modernità e che ora erano soltanto cimeli polverosi. Una attempata signora di colore in vestaglia e ciabatte, materializzatasi al centro del salone, ci venne incontro con un sorriso disarmante sul viso e mi salutò baciandomi sulle guance. Poi ci fece strada verso una scalinata in ferro battuto che portava su un terrazzo meravigliosamente avvolto da piante e fiori di tutti i colori. Su un lato corto di questo rettangolo sospeso sui tetti della città, nel fresco del mattino presto, un ragazzone di colore, pensai fosse il figlio della signora in vestaglia, era piazzato dietro al bancone di un bar improvvisato. Ci sedemmo ad un minuscolo tavolino tondo in ferro, stile belle epoque, e ordinammo due mojto. Ricordo ancora le radici della menta appena estirpata dal vaso alle spalle del barista, sporche di terra e di un verde mai visto. Ne bevemmo diversi perché quella vista meritava di essere celebrata e perché l'ospedale è sempre un brutto posto in cui entrare, anche a detta di Camila che mi raccontava del nonno ferito da certi ladrones mentre era a difesa del suo porcile durante el periodo especial. Quando arrivammo davanti al palazzone fatiscente a due passi dal mare, l'ospedale Calixo Garcìa, mi prese quel nodo allo stomaco che mi coglie sempre di fronte a questo contenitore di sofferenza. I telefoni, quattro, erano nell'atrio, a pochi metri dalle porte d'ingresso. Telefonai velocemente, mentre provavo a non far caso al movimento di medici, pazienti e visitatori che si agitava intorno a me. Ogni tanto volgevo lo sguardo a Camilla e mi aggrappavo al suo sorriso per vedermi già fuori di lì.

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Epilogo

  La prima immagine di quella giornata è il mio viso riflesso nello specchio del bagno della casa in cui sono nato, quella in via Cristoforo...